martedì 24 luglio 2018

La corsa di Sant'Anna


La Corsa di Sant'Anna

(Viaggio con mio padre)


Terminai la mia fetta di anguria. Avidamente. Come un suonatore di armonica, con l'amato strumento fra le mani. Mi era servita a lavarmi anche il muso dopo il pranzo,  tant'è che ero già  pronto a togliere il ferro della porta  e volarmene in piazza. Mi fermò la voce di mio padre, sonante, severa come un tuono tra i nembi, infrangendo d'un tratto, di là  dalla stanza,  tutti i miei sogni di un pomeriggio da fuggiasco.

Addio giornata! Pensai in un istante. Addio Cola, che mi aspettava complice là fuori per un tressette segreto nel baglio don Isidoro, con il mazzo di carte trafugato per un'ora dal circolo dei mastri.
Mi convenne ubbidirgli. La conoscevo bene, ahimè, la cinquina di mio padre bruciante sulle cosce, quando ogni tanto mi incaponivo a contrariarlo, sedotto dal canto di sirene dei compagni, là in strada; vinto dalle loro grida di imberbi guerrieri, padroni giorno e sera di tutte le contrade laggiù sino al fiume, di là dal quale i sentieri e le campagne apparivano già come luoghi remoti, come oscure trincee inesplorate.
Restai dunque a casa; sconsolato al richiudersi lento di quell'uscio, dove un'ultima riga di sole man mano scompariva, come una filo d'oro dentro a uno scrigno.
La mia infelicità fu, però, breve. I padri, si sa, sempre hanno in serbo qualcosa per noi dal loro magico cilindro: fosse anche soltanto una scheggia di fiaba o un enigma già risolto per i nostri inquieti timori, così che mai ci sia negato, alla fine, un pago sapore di gioia, tra le labbra.
Lo udii chiamare mia madre giù dalle scale. Che mi preparasse la giacchetta di grisaglia azzurra, con la cetra fregiata sul taschino, perché saremmo andati da lì a poco a Castelbuono, a vedere la corsa e  la festa di Sant'Anna.
Mi lavò di tutto punto, prima del viaggio; nella bagnera dei grandi. Quand'ebbe finito il vestimento, mi spartì con cura una scrima dritta, a lato dei capelli, sussurrandomi, complice in un bacio, che sembravo un màscolo già pronto a maritarsi.
La Fiat Seicento si accinse dunque a partire scrutando il serpeggiare dello stradone innanzi; pervaso dall'alito ancora caldo dell'asfalto, costeggiato qua e là, nel suo tratto, dai folti roveti di more, dalle stoppie, dal violargento dei fiori di spine.
Nella discesa, lungo le curve verso il ponte, spegnendo in un gesto la chiave del motore, mio padre acconsentì di fermarci, per esaudirmi un lesto e impellente bisogno dietro a un cespuglio.
Lì intorno, tra le quinte della grande Madonìa, il silenzio sembrava vegliare sul riposo dei campi, interrotto appena da un'ineguale antifona di grilli, solitaria, quasi, dentro il celeste di quell'ora.



Il paese, ci attendeva, intanto.
Lasciata la vettura all'apparire delle prime case,  ci incamminammo in fretta, addentrandoci nel cuore delle vie, subito attratti da una meta di suoni festosi, sempre più vicina ai nostri passi.
Alla svolta dell'angolo, un arpeggio di trombe, lucente nell'aria, ci giunse d' improvviso, unito al controcanto dei flicorni; ad accenderci un gaudio che andava nel sangue, a trattenerci piano il respiro.

La vedemmo, infine, la banda. Schierata già sulla piazza, nel suo tripudio di livree osannanti. Gli strumenti innalzati come armi, specchianti il colore del cielo, stretti in braccio a quegli uomini fieri. Belli e orgogliosi, a guisa d' ussari in battaglia.
Ripartì, coi suoi musici prodi,  per altri sestrieri. Seguita da una ciurma di monelli incravattati, e da un paio di matti del paese, ebbri e innocenti, dietro ad essa nel loro sorriso dolcigno, soave,  come pasta martorana.
La strada di Sant'Anna, intanto, s'era fatta una ridda inesplicata di voci. Una turba di allegre, chiassose tenzoni.
Dalla chiesa al Castello i venditori di càlie e nocciole,  con i loro rauchi gorgheggi dominavano la scena, superbi nel saper vantare, ciascuno,  i propri tesori di merci ineguagliate.
Attori, parevano, Giullari. Saltimbanchi venuti da chissà quali patrie, entro i loro banconi dalle ruote grandi, uguali ai marchingegni di un teatro; con i teloni pervasi da mille pitture, narranti le gesta degli eroi di Francia.

Lì mi perdetti, fra quelle tele. Tra quei carmìni, i violetti, i turchini. Con gli occhi sgranati innanzi ad essi come due finestre sopra il mare. Di fronte al prode Orlando che periva a Roncisvalle, in capo a una collina di semenza, toccando quasi i seni di Angelica, o giù, il paradiso di Rovenza, nascosti per vergogna dietro un tumulo di mandorle tostate.
Il  cielo, nel frattempo, s'era fatto un preludio di armonie leggere. Un alito di luce esteso agli orizzonti,  alle terre paghe del meriggio, al perpetuo e ineguale profilo delle alture.
Udimmo il rintocco delle sette, lento e cadenzato discendere sui luoghi della festa e, al contempo, una febbre come di gravida, palpitante attesa muoversi via via nell'aria, fino a raggiungere i tetti delle case, le torri, le pergole sopra i cortili.
Era venuta l'ora della corsa.
Mi sembrò di capirlo dal sopraggiungere di una bianca auto sportiva, su cui un uomo dalla faccia scura, come da un alto posto di comando, si ergeva a richiamare la folla, con i suoi ordini e i suoi gesti animosi.


Gli vidi spartire in un baleno dei volantini rosa, dinanzi a migliaia di mani protese.
Riuscii a catturarne uno e volli leggerlo d'un fiato; " GIRO PODISTICO CITTA' DI CASTELBUONO", la gara a piedi più antica d'Italia, forse d'Europa, forse del mondo!"
Il cuore mi balzò d'improvviso e solo allora compresi sì, che era tutto vero.
Veri erano stati i racconti di mio padre sulla corsa, a casa, nelle sere piovose d'inverno, prima di arrendermi, sconfitto,  al fosso dei miei sonni; vere le sue storie intorno ai nomi delle strade: la Rua Fera echeggiante su tutte, legate alle imprese dei campioni. Veri soprattutto  la passione di lui, mio padre, per quell'epico giorno, atteso da sempre allo scoccare di ogni estate, che diveniva di più ogni volta,  al suo cuore,  come il segno struggente degli anni dietro sé, la memoria dispersa nei sogni e nel tempo, là a quella piazza,  verso una bianca linea d'arrivo...
Una coltre di silenzio ormai era scesa alla punta della strada mentre l'uomo dalla faccia scura, al centro di essa, col suo megafono di latta, chiamava ad alto suono i concorrenti.
Sbucarono uno ad uno. Dai vicoli, dai portoni, dai caffè: bardati ed ansanti come cavalli ad un palio; con i numeri grandi spillati sul ventre e stemmi di contee nel petto.  E un presagio di gloria assai vivo, a ciascuno, negli occhi.
Partirono di scatto, al sentirsi di uno sparo;  insieme a uno stuolo di rondini atterrite, fuggite a gremire un pezzo di tramonto, prima di tornarsene, già quiete, dopo un po', ai loro rifugi sotto le grondaie.
Una corsa dura, bellissima.


Vedemmo a ogni giro i corridori uscire da una curva, slanciati in modo di puri destrieri, dentro a un naufragio di grida acclamanti.
Altri ne udimmo invece arrancare nelle retrovie, ai piedi dell'infame salita; sacramentando santi di borghi sconosciuti, maledicendo il sangue e il fiele versato, metro per metro, su quei ciottoli grevi, sconnessi.
Fu un trionfo, per il primo al traguardo, e il suo nome trascritto per sempre sugli annali dei grandi.
Riuscimmo appena ad avvistarlo, tra un fiume di gente mentr'egli, ubriaco di letizia, alzava con le mani il suo trofeo: una dea superba. Con le ali inarcate a raggiungere l'Olimpo.
Le campane incalzavano liete, nel frattempo, sospese nell'ombra della prima sera. sembrando chiamarsi l'un l'altra, in un dialogo d'antiche intese. Mi piacque molto quel nuovo, diverso, più caldo frastuono e credetti che fosse l'estremo tributo inneggiante all'atleta vittorioso.
Lo chiesi a un anziano del luogo, che mi stava vicino. Ne ebbi una sorta di  diniego dolce, diviso a metà, fra alterezza e  fervore.
No, mi rispose.
Non suonavano all'atleta, le campane, ma a Sant'Anna. La santa Madre che avrebbero avrebbero  portato più tardi in processione, in moltitudine quieta di lustri e di luci; a riaccendere per Lei il nero della notte.
Eravamo stanchi, come errabondi al culmine d'un viaggio.
Ci sedemmo su un erta di scalini che davano su un vicolo, sotto un lampione dai riflessi ambrati che rischiarava un poco i nostri sguardi.
Sentivo l'odore di mio padre, poggiandomi al suo fianco; il suo profumo di spigo mischiarsi lieve alla mia pelle.


Lo abbracciai, sentendo il cuore che accorreva al suo cospetto, per quel diluvio di emozioni trascorse, per il dono inatteso di quelle ore, dissipate insieme,  dentro a quell'ultimo scorcio di luglio.
Ad un tratto, tra gli arabeschi di un ampia inferriata posta dinanzi, scorgemmo una sorta di cencio color amaranto, su cui si intravedeva qualcosa che sembrava uguale ad una scritta. Mi baleno' un pensiero e mi accostai, fino a  lì, a pochi metri.
Era la maglia di lui, del numero 31. Benedetto Mastrojeni. Polisportiva Telestar, Palermo.
L'aveva dimenticata, il campione; in quell'angolo appartato di paese, nell'atto di cambiarsi. prima di tornarsene, sazio di allori, verso la città che l'attendeva.
Lo cercammo invano, per ridargli indietro il suo emblema prezioso. Ma essa, la maglia custode di tante esultanze, ci giaceva inerte fra le mani, priva del respiro  del suo eroe, madida ancora dell'improbe  lotte vissute...
Decidemmo di tenerla, infine, a ricordo di quel giorno, e di portarla con noi lungo il tragitto di ritorno fino a casa.
Mia madre la stese al balcone, in grembo a quella notte calma,                                                              dischiusa agli stellati.
Io mi alzai tante volte dal letto, a guardarla. Sembrava dormire. Cullata da un vento di levante, approdato fin lì, dal mare non lontano.