Conobbi Nino Mancuso per via di una cassetta. Una cassetta audio, di quelle ancora in uso, da noi, intorno agli anni ottanta. La ebbi tra la mani, ricordo, in dono da un allievo assai caro che aveva preso, nei suoi inizi, a studiare fisarmonica.
In viaggio, quel giorno, verso il mio paese, accesi l'autoradio e la spinsi con cura dentro al mangianastri. Sento, ora, mentre scrivo, l' uguale fragranza e aria di pioggia, lungo la strada che mi si poneva lieve, accanto; le grandi gocce cadenzanti al parabrezza, e ancora come allora, le povere vesti dei passeri smarriti, intirizziti, in schiera, sopra i fili e i pali del telefono.
Partì, la musica, subito, in un punto alla metà del nastro, piano, in controcanto alla vista del mare che appariva confusa lontana, tra l’ alito pensoso della nebbia. Era il Preludio di Traviata, il suo abbrivio dolente, sussurrato dai tasti in madreperla tra il quasi umano e dischiuso fiato del mantice, alle braccia.
Era bravo, Nino. Un tessitore dolce d' arabeschi, di spirali leggere, tramate sul cuore. E i suoni, i suoi suoni, sembravano un calmo parlare, una polvere di luce, posata sopra al vivere. Lo conobbi così. Con la musica in mezzo, fra noi: dolce, fidata compagna incontrata tra i giorni, da cui mai separarsi.
Lo cercai, il maestro. Lo invitai a suonare. Sere nel grembo delle estati, con la luna a far da madre ai chiostri, ai bagli, ai cortili. Con le perle del sudore, Nino, (e qui passo a chiamarti col tu) a tergerti il papillon: in nugoli lucenti, là posti sopra al viso.
Potrei narrare, è facile con te, non di storie nascoste, inventate, ma di favole vissute a quei tuoi suoni. Tra il pensiero che, in musica, si svelano, ad essa, soltanto ricchezze - dall' animo degli uomini - e mai le povertà.
Fui felice, di averti avuto, allora, alle mie nozze; in quella sera con la tua czarda a danzare rapsodica, svelta, alle mani. Perfetta e pervasa dentro ad ali virtuose, da campione.
E ricordo sempre di aver mosso anch' io le tante partenze verso te a Bisacquino; di aver percorso quelle strade tortuose e gaudenti , tra il saluto delle agavi fiorite. Di aver spartito, poi, le mie sincere povere cose compiute al pianoforte, insieme alla tua gente. E portarti le schiere degli allievi, i colleghi artisti, la Fucina dell' Arte, l' Orchestra Cicero, il Coro Anima Gentis, le Voci Bianche, nella sfera della creatura che hai tenuto a lungo in cuore: la tua "Primavera Musicale". Bel titolo che hai scelto, caro amico, in lucente elzeviro di letizia.
È così. È primavera, il porgere in mano un po' di bellezza, tra l' anima e il valore stesso di un luogo. Come lo è, primavera, ogni volta, il coinvolgere i giovani, o drappelli di seguaci d' ogni età in un'idea d' arte vera e possibile, e sentirne di essa la dimensione, il non sterile germe, come un aria che irrompe tra il gaudire dei mattini.
È primavera, poi, finire queste righe. In cui l' esser grati alla musica, qui, si muta, semplice, quieto, dentro a un mostrarsi di bacche o ginestre odorose. E scrutarne, sentirne, da esse, i doni, gli sguardi, i disegni di Dio.