sabato 22 dicembre 2012

Il Mistero, tra Poesia e Musica, presentazione

 

Serata dedicata al  libro di Tony Caronna ed Enza Maria D'Angelo, ( prefazione di Antonio Sottile)
nella Chiesa della Catena a Palermo, con la partecipazione delle Voci Bianche del Conservatorio



Palermo, 21 Dicembre 2012

 
Ho il piacere di pubblicare tra queste pagine web la mia prefazione al  libro, appena edito dalla casa editrice Il Campano. Il ricavato dalla vendita andrà in favore del Progetto Gemma, servizio per l'adozione pre - nascita  a distanza di madri in difficoltà.
 
 
 
 
 
 
Ora pro nobbi santa dei  genetri…

 Oremus grazia mintùa … questum nostr infunti…”

 

Si era fatta l’ora. Gli  spaghetti  fumavano già sulla tavola, mischiati ed immersi  nelle scodelle di terracotta   smaltate di  celeste,  con al centro la cannata del vino schiumante ancora di botte. Un  tripudio, una gazzarra trepida di  odori e di colori, con la gola ad inghiottire a vuoto  la bramata delizia di spada, menta e melanzane.

Non c’ era storia. Non c’era modo d’affondare la forchetta anzitempo sulla gloria del cibo. Prima veniva la preghiera.

Così, mia madre  stracambiava la voce  ad un tratto, facendosi seria ed  iniziava l’Angelus.

Non ho mai dimenticato quei  momenti,  quell’irrompere  consueto della fede sulle  nostre labbra, sulle nostre normali vicende del vivere;   tra l’acclamato  dono,   ogni volta, d’attenderne una qualche luce o  consòlo,    a riconoscerne un segno di  verità semplice e, per questo, infinita.

Scorrendo le bozze del lavoro di Tony ed  Enza  Maria Caronna,  così attento, vivo, appassionato,  rincontrando tra le pagine  le parlate e  i fonemi  assai  cari  del dialetto siciliano, mi è sembrato come  entrare una volta di più dentro l’ atmosfera e  la primordiale tenerezza  scaturita  da  mille stuoli di suoni e di versi  danzanti, così vivi, così familiari; nella loro magia di ritmi celati tra le sillabe,  nella fragrante, disarmata  innocenza  della loro ispirazione.

Già, l’ispirazione.  A volte, in certe sere d’inverno,  quando m’accade   di tornarmene tra i  luoghi dove sono nato,  tra  quella stessa aria che amo e conosco,  non è raro che a casa m’imbatta in un qualche volume di poemetti,  in qualche libricino  di liriche strapaesane, sonetti  di terre e di mari, o canti di cose di Dio.  Di là da ogni  esegetico impulso  o misurata analisi riguardo al loro contenuto letterario, ciò che mi intriga spesso è il voler come giocare  o candidamente frugare tra l’anima di questi  amabili  poeti  nostrani , di questi  emuli  Petrarca  da  Mussomeli,  Molière da Pietraperzia, Holderling da Bisacquino…     

Eppure,  come sarebbe fascinoso conoscere le ragioni,   il germe, la scintilla  che  prelude ai loro gesti creativi, ovvero la necessità di esprimersi nel bagliore di  una rima ritrovata,   di un settenario riuscito a far quadrare,  di un disegno, alla fine, gioiosamente compiuto.  E quanto tempo, pensiamo,  sottratto ai loro mestieri,  alle olive, alle vigne, alle capre, al loro stesso pane, pur di assecondare, essi,  quel richiamo da dentro,  quella  spiaggia di sirene, quella scheggia di fuoco nutrita in fondo al cuore. Fin qui dei poeti ho scritto, fugacemente,  nelle poche  righe qui sopra.  Mi rimane ora di farlo sui musicisti o ancor meglio, sui musicanti:  l’altra parte,  l’altro emblema di questa affettuosa compagnia o cerchia d’arte,  con il proprio percorso concepito per animare gli spiriti  sinceri, i sentimenti del popolo, la vera gente, al  fine di scaldarne l’amara e grama esistenza  e porla in dialogo a un pensiero  tanto dolce, pietoso, carezzevole, quanto infinito. Il pensiero di Dio.

Ci colpisce, in questo fascinoso viaggio verso le mete della nostra letteratura popolare e religiosa, il rimanere presi  da personaggi  e figure  rare, lontane, sconosciute;  e se ci risulta facile poter individuare in talune opere  l’ impronta, il segno dei  versi magistrali   di Annulero, di  Di Liberto o di altri ancora, è pur vero che riguardo agli autori  delle musiche, il più delle volte, invece,  ci risulta sapere assai poco o  nulla.  Così che,   davanti  all’incanto sonoro di un  Alligrizza piccaturi , di un Viaggiu d’i tri Re, o del Canzuneri di Maria  abbiamo quasi a sentire come  smarrirsi  l’occorrenza d’un nostro tributo di lode,  di un feel   di gratitudine, di un bisognoso slancio  verso l’entità di un  volto o  di un  nome.

Noi, che nella vita e per mestiere, abbiamo studiato la musica dei grandi, Mozart, Verdi o Brahms,  che giorno  dopo giorno percepiamo sempre più alto il distacco tra la nostra pochezza e il loro genio  e ne sentiamo ogni  volta più lontano il confine,  che sembriamo navigare alla deriva  tra le  vincenti maree delle loro creazioni,  che misura o valore  allora potremmo attribuire, invece,  al lavoro  di questi altri  primigeni artisti della nostra terra,   e che premio  generoso poter dispensare ugualmente ai loro esili, piccoli ricami di suoni  e di parole?
 Nessun valore, nessun premio  – risponderemmo decisi,  se non credessimo altrimenti   alla verità  che  nell’arte ci sia davvero posto per tanti,  per  le minime o le grandi cose,  per i  supremi voli  o   gli incerti cammini, purché segnati  e percorsi dalla generosità del cuore,  da un durevole, ricolmo abbandono...

Se la ragione di questo  breve scrivere non mi fosse sacrosanta, proverei io stesso a negarmi la  naca d’ù Bamminu, nella sera  di Natale, al mio paese, o la cantata d’i pastura nella piazza, con la brace di salsiccia accanto alla neve, e il bacio degli amici pecorai  odorante di cannella e vino cotto;  e  l’aria calda, fumante che esce dall’ancia dei clarini, dal fiato dei corni, in eco all’ansare dei  cantori.  No. Non ci sarebbe posto  per la Weichnacht –Kantat di Bach,  quella notte, con tanto di  recitativi e fluttuanti arpeggi dei cembali.  Mi basterebbe leggere la nascita di Dio tra gli sguardi dei vecchi,  tra  il bilico dei loro sofferti  accenni di danza  e le lunghe sciarpe  a sfiorare  le bàsole  imbiancate, tra le grida dei ragazzi attentanti  il  fluire del suono,  così pregno d’armonie quiete,  di parole dolci, più d’un miele di carrubo.
 
Il canto della Novena di Natale in Sicilia, ( Alimena)
 
Accostandomi ora  a riaprire il volume e a riassaporare l’ottimo lavoro letterario di Tony e Enza Maria, tra l’altro impareggiabili genitori di Micol ,  mia allieva del coro in Conservatorio, vorrei poter contribuire con una piccola sorpresa ad aggiungere un foglio, un foglio soltanto  all’esauriente  stesura  del loro libro.  E’ una chicca  autentica,  una poesia – cantata  del Natale, scritta da Mastro Pasquale Pagano, scarparo di Caltagirone, all’incirca nel 1760 che ho ritrovato  tra i manoscritti  della Biblioteca Comunale e che ho voluto rendere  in musica , con la  minuta aggiunta di   poche modifiche. E’ un cammeo di delicato charme dialettale, d’ adamantina purezza inventiva , che mi ora piace tradurre tra queste pagine.

 

                                                                 CANZUNERI DI NATALI

composto da Mastro Pasquale Pagano, scarparo di Caltagirone, 1760, circa

 

Càdinu a scrusciu l’acqui
saziannu la campagna

la nivi a la muntagna
si va pusannu già.

 

Ntra stu friddusu tempu
di ‘nvernu rigurusu
 
Maria cu lu so spusu

in  Bettilemmi  và.

 

Incinta si truvava
di n’ommu ch’ era Diu

quannu a Judìa iuncìu
circàu na casa ddà.

 

Cunfusu era Giuseppi
nu avennu chiù chi fari
 
cerca Maria purtari

fora di la città.

Na grutticedda trova
(lu  tempu  ja strincennu)
 
trasi Maria vidennu

dda granni povertà.

 

Senza duluri e frenu
isannu a Diu la vuci

duna  Maria  alla luci
dda gran Divinità.

 

E pri maggiuri  preggiu
essennu matri fatta

ristau pi sempri  ‘ntatta

la sò virginità.

 

La mìsira gruttuzza
diventa un paradisu

e n’ancilu l’avvisu
duna all’umanità.

 

Virdicanu li campi
la serra fa li sciuri

natu è lu Redenturi
ognunu  a festa fà.

 

Godi la matri intantu
vasa lu sò dilettu

lu strinci a lu so pettu
e ad adurarlu stà.

 

Na stidda  all’urienti
si vitti ‘ntra li spiaggi

e prestu li tri Maggi
si partinu di ddà.

 

E li pastura infini
 a lu Messia cantannu

turnarunu gluriannu
la granni so bontà !

 

Grazie, mastro Pasquale, di questa cantata,  di tutte le tue notti persi ad assicutare rime ‘nfruntati con i sillabi.  Il tuo travagliu non è stato ammàtula.
Anche se non te la fidavi  a impastare figurine per il presebbio della tua  putìa, te la sei fidato ‘nvece a impastare palori, a metterci pinseri, fede,  sentimentu.
Certu, duecetusessant’anni  sono un poc’ assai,  prima di vedìri la tò poesia cumparìri  in un libro. Ma l’arti metti giustizia, ogni tantu. 
Se lo puoi fari, sduviglia a tua moglière, e facci  vedere il tuo nome appiccicato nella paggina.  Eppoi, dille che sbagliò,  tante volte,  a non capìri abbastanza la tua valentizza d’omu e di scrittori.
Come  quella  matina che idda venni alla putia con la cannata   riempiuta d’acqua frisca e te la gettàu nella tò faccia, gridanno:  –“ Pasquà! O Pasquali di  sti càbbasi…..!   Vedi che sti cosi chi scrivi  nun si mànciano !  - “
E ti strazzaù  la  carta del pani dove c’erano scritti le poesie.   E lo seppero tutti,  i parenti, l’amici, il vicinato che  tu la volevi  scannare con la lèsina.  Fino a quanno  vennero  la guardia ‘nzemmola al pàrroco. E, alla fini, voi faceste paci.

                                                                                           Un saluto, sempri amico
       

                                                                                                             Antonio Sottile, Novembre 2012

 
Caltagirone, presepe ( part), Chiesa Madre